CHI ERA GIORGIO GABER
Biografia di Giorgio Gaber a cura di Massimo Bernardini
Cos'è, cosa dice, scrive e fa un intellettuale, in una stagione confusa come la nostra? È uno che mentre gli altri sembrano fare i conti con le cose più spicciole guarda un po' più in là e un po' più dentro. Le parole di tutti non gli bastano, per lui vogliono dire un'altra cosa. Perciò le deve riscoprire, ripulendole da ovvietà ed equivoci. Perché l'intellettuale vero le parole le usa tutte, le più semplici come le più difficili, e non ne teme nessuna.
E poi l’intellettuale, quello vero, lo distingui perché ama il pensiero ma ancora di più ama la realtà. Ed è lì che diventa scomodo. Le parole, i pensieri, le ideologie, le misura con la realtà. E dunque di volta in volta diventa spiacevole per qualcuno. Quando un intellettuale non spiace più a nessuno non è che serva a molto.
Giorgio Gaber, come intuì qualche tempo fa lo scrittore e critico Luca Doninelli, è un intellettuale, forse l'ultimo della sua generazione. Quando oggi scrive: “La mia generazione ha perso” non è per finta ma nemmeno per autolesionismo. Grida che qualcosa è finito, qualcosa che era un sogno grande, e di tanti. Lui, che era nato come cantante di successo, entertainer di classe, lui che andava in tournèe con Mina e aveva un posto da titolare in tivù come a Sanremo, ci aveva creduto. E aveva mollato tutto per il teatro, l'impegno, il sociale. Parole consumate, oggi. Ma per chi negli anni 60 aveva cantato, e fatto cantare, successi come Non arrossire, La ballata del Cerutti, Porta Romana, Mai mai mai Valentina, E allora dai, Torpedo blu, Il Riccardo, Barbera e Champagne, La balilla, era stata una vera svolta.
Ma c’è di più. Gaber è stato ed è anche oggi, oggi che il suo interlocutore si è ormai frammentato in mille direzioni, un intellettuale collettivo. Altra parola consumata, che ci rimanda l’eco di antiche ideologie. Ma se la applichiamo a Gaber la definizione vuole semplicemente dire che insieme a Sandro Luporini in questi anni ha sentito e cantato per molti, suscitando emozioni e disappunti, esami di coscienza e commozioni, persino "inni" chissà se davvero compresi (“libertà è partecipazione”).
Poi Giorgio Gaber ama il rigore della forma, nella scrittura e in palcoscenico. Usa i mezzi di comunicazione per quello che sono e che valgono. Infatti la sua lingua è netta, semplice, diretta. Non ha complessi d'inferiorità verso la cultura alta, narcisistica, autoreferenziale degli intellettuali all'italiana. In teatro ha promosso un'audace convivenza di forme, dal monologo alla canzone, dalla pièce di prosa fino ai bis con la chitarra. E volta per volta, a seconda della necessità, la sua parola si è fatta sberleffo, richiamo, dileggio, emozione, disincanto, amarezza. Si è sentito per anni insieme a un'intera generazione e poi di colpo solo, sempre più solo. Credeva di aver conquistato una certa opinione pubblica ma poi l'ha sentita sempre più distaccata, impermalosita, alla fine persino polemica. In compenso, in oltre quarant’anni di carriera, ha continuato a scoprire nuovi interlocutori e sempre nuovo pubblico, divenendo intramontabile campione d’incassi a teatro e, a sorpresa, di nuovo gran venditore di dischi alla svolta del secolo. Ma come si costruisce, nel tempo, un intellettuale vero?
L’inizio di Giorgio Gaber è figlio del jazz e del rock & roll. Siamo nella seconda metà degli anni 50 e la leggenda narra del Santa Tecla, locale un po’ equivoco a due passi dal Duomo di Milano. E’ lì che uno studente della Bocconi, diploma di ragioniere, milanese ma di radici triestine, si trasforma in chitarrista e poi perfino in cantante. D’altronde il “conservatorio”, per una intera generazione di artisti nati intorno alla guerra, è una cantina due metri sotto il marciapiede (ricordate un certo Cavern Club, in quel di Liverpool?) e Gaber non sfugge alla regola. Con lui ci sono Enzo Jannacci, Luigi Tenco, Giampiero Reverberi. Si fa del jazz (c’è anche Paolo Tomelleri), del country & western (il primo gruppo si chiama Rocky Mountains) e si scoprono Bill Haley, Elvis Presley, i Platters. Passano dal Santa Tecla Adriano Celentano (che vorrà Gaber come accompagnatore alla chitarra) e soprattutto Sergio Rapetti in arte Mogol. Sarà lui ad offrire all’incredulo studente il primo contratto discografico. In realtà Gaber sta vivendo una lunga parentesi, un gioco consapevolmente goliardico. Non crede affatto che il suo futuro professionale verrà da queste notti senza fine. Eppure fra la chitarra, il microfono e la vita da orchestrale, si sta formando una parte rilevante dell’artista Gaber. Che a questa prima stagione dovrà molto della sua energia e della sua fisicità sul palcoscenico. Oltre a un’immediatezza di riscontro col pubblico, sera dopo sera, che la generazione successiva dei cantautori non conoscerà se non a carriera avanzata. Apice dell’avventura, probabilmente, l’isterica serata del Primo Festival Nazionale del Rock And Roll, 18 maggio 1957 al Palazzo del Ghiaccio di Milano. E’ la data di nascita ufficiale del teenager italiano, urlante e scatenato come il suo omologo in ogni parte del mondo. Giorgio Gaberscik, in arte Gaber, non ha ancora diciannove anni.
In quella serata di fuoco Celentano e Gaber si sfidano a colpi di Ciao ti dirò, ufficialmente firmata da Calabrese-Reverberi ma scritta da Gaber, Tenco e Reverberi. Il modello è copiato dagli Usa, ma il sound e la scrittura sono all’altezza. Gaber la inciderà nel ’58 come uno dei primi microsolchi della storica Casa Ricordi, che proprio in quell’anno aprirà (con l’ultimo rampollo della dinastia, Carlo Emanuele detto Nanni) la sua scuderia discografica. Se il primo numero in catalogo è la storica Medea di Maria Callas, nella sezione leggera sarà Gaber a fare da apripista per Gino Paoli, Umberto Bindi, Ornella Vanoni, Luigi Tenco, Enzo Jannacci, Sergio Endrigo. Ma a parte qualche scherzosa parentesi in coppia con Jannacci (Una fetta di limone) è già chiaro che il Gaber vincente è quello della doppia chiave confidenziale e ironico-realistica. Geneviève, Non arrossire, Le strade di notte, Le nostre serate, Così felice da una parte, La ballata del Cerutti, Benzina e cerini, Trani a gogò, Porta Romana, Il Riccardo dall’altra, rappresentano le due anime di un artista che cresce canzone dopo canzone, nel consenso del pubblico e nell’interesse di altri mass media, televisione in testa. Firmate in proprio o in felice collaborazione con lo scrittore milanese Umberto Simonetta, quelle canzoni sono il ritratto di una stagione spensierata e insieme venata di malinconia: i conti non tornano tutti, in quei primi, formidabili anni 60. Gaber, intanto, è divenuto uno splendido cantante, uno dei migliori della scena italiana (altra distinzione mai abbastanza sottolineata, negli anni che verranno, rispetto alla generazione dei cantautori). Frequenta regolarmente Sanremo, Canzonissima, persino il Festival di Napoli. Vende copiosamente 45 e 33 giri, e dalla Ricordi passa prima alla Rifi e poi alla Vedette. Ma intanto ha già messo un tassello del futuro: è della stagione ‘60/’61 il primo récital con la sua compagna di allora, Maria Monti: Il Giorgio e la Maria, regia di Giancarlo Cobelli, al Teatro Gerolamo di Milano, salvato dalla demolizione grazie al Piccolo Teatro di Grassi e Strehler (la coppia Gaber-Monti parteciperà anche a Sanremo 1961 con Benzina e cerini). Ma Gaber deve ancora percorrere tutta la parabola del magico decennio, presentarsi a Sanremo ’66 in coppia con Pat Boone con Mai mai mai Valentina, esplodere nell’hit parade del ’67 con la sanremese E allora dai, scrivere le spiritose Goganga, Snoopy contro il barone rosso, Torpedo blu, Sai com’è no com’è, Il Riccardo, Barbera e champagne. Intanto è diventato anche un mattatore televisivo: Canzoni di mezza sera, Canzoniere minimo, Milano cantata, Le nostre serate, Giochiamo agli anni Trenta. E’ quindi naturale che a “celebrare” il suo matrimonio con Ombretta Colli, nell’aprile del 1965, sia una copertina di Sorrisi e Canzoni.
Ma Gaber cerca un’altra strada. Canzoni come Suona chitarra, Come è bella la città, La Chiesa si rinnova, Maria Giovanna (che solo in teatro troveranno la loro giusta collocazione) esplorano nuovi terreni. Però c’è ancora un pubblico da trovare e il luogo giusto dove incontrarlo. Preziose in questo senso sono due esperienze: il disco L’asse di equilibrio, del 1968, e le tournée teatrali del ’69 e ’70 con Mina. Se i concerti in teatro gli fanno scoprire un punto di arrivo senza ritorno, sul fronte discografico la faccenda è più complicata. I percorsi codificati da decenni (Canzonissima-Sanremo-Disco per l’estate) stanno perdendo di attrattiva, mentre una nuova generazione di cantanti arruffata e naif, ancora una volta sul modello anglosassone, sta per invadere il mercato. Gaber non sta né di qua né di là, troppo rigoroso e troppo musicista per disfarsi del suo mestiere e troppo cosciente dei mutamenti in atto per tornare indietro. In fondo Sexus et politica, canzoni di A.Virgilio Savona scritte su testi di autori latini di 2000 anni fa, del 1970, è l’ultima scommessa di Gaber ancora all’interno della logica discografica, seppure alternativa. Di lì in avanti scrittura, registrazione ed interpretazione delle sue canzoni saranno a servizio di una nuova identità artistica.
Ed è ancora Milano ad indicare la svolta definitiva a Giorgio Gaber, con una parola che oggi appare già d’altri tempi: decentramento. L’anno chiave è il 1970. Paolo Grassi probabilmente scopre il nuovo Gaber al Lirico di Milano, in una serata divisa a metà con Mina. Comincia a corteggiarlo per un’ipotesi di récital prodotto dal Piccolo Teatro. Ma Gaber ha un carnet fitto di impegni: fino a primavera c’è l’impegno con Mina, e dal 15 agosto è di nuovo in televisione per …E noi qui, varietà del sabato sul primo canale in prima serata, sette puntate firmate da Vaime, Simonetta e Terzoli, con Ombretta Colli, Gino Bramieri e Rosanna Fratello (è la Rai che nello stesso anno propone L’Eneide di Franco Rossi, I clowns di Federico Fellini, Leonardo di Renato Castellani, Socrate di Roberto Rossellini, Strategia del ragno di Bernardo Bertolucci, I Racconti di Padre Brown con Renato Rascel e i debutti di Rischiatutto e 90° minuto). Il regista è quel Giuseppe - ¬non ancora Beppe - Recchia che ha fama di innovatore (lancerà nel ‘76 il Benigni di Onda libera e poi, insieme ad Antonio Ricci, i disinvolti varietà anni 80 della nascente tv commerciale, da Drive In a Striscia la notizia). Sarà lui ad accettare che la partecipazione di Gaber a …E noi qui (17.1 milioni di telespettatori di media: ed è il congedo definitivo di Gaber dalla tivù!) si trasformi in un vero e proprio micro-récital a puntata. Naturale che alla fine figuri in veste di “curatore” nella prima locandina ufficiale di Gaber in teatro.
Ormai convinto da Grassi, a fine estate Gaber lavora al suo primo récital da titolare, debutto previsto il 18 ottobre 1970 al Teatro S.Rocco di Seregno, in Brianza. Eccolo, il decentramento del Piccolo: ottobre, novembre e dicembre in provincia e finalmente, dal 12 gennaio del 1971, tredici giorni filati nella storica sala milanese di via Rovello.
Il Piccolo Teatro di Milano
presenta
Giorgio Gaber
Il signor G
Queste le quattro righe in locandina, mentre il programma di sala parla della “…classica storia dell’uomo inserito…la storia di tutti noi, dell’autore stesso… Il signor G è l’uomo che fa fatica a vivere e a cui crollano uno dopo l’altro i miti della giovinezza”. Un quartetto musicale alle spalle, in cui già figura al pianoforte e alla direzione musicale il fedelissimo Giorgio Casellato, e un asciutto programma fatto di brevi monologhi e canzoni. La scrittura è compatta, rigorosa, senza sbavature; il modello del rècital francese alla Brel-Montand-Bécaud molto tenuto presente. Ma la fisicità di Gaber, il suo trascolorare continuo fra ironia e lucidità, fra drammaticità e leggerezza, fa già la differenza. Lungo l’esile trama di un signor qualunque fotografato dalla nascita alla morte, Gaber si porta dietro tutto il mestiere maturato fin lì e insieme si lascia definitivamente alle spalle quella “simpatia” ammiccante che tanto aveva fatto la sua fortuna, anche commerciale. C’è la tentazione, figlia dei tempi, di uno sguardo un po’ manicheo su quell’Italia mezza in rivolta e mezza in ritirata, ma l’orizzonte piccolo borghese è vivisezionato con spietatezza e complicità, puntando il dito innanzitutto verso se stessi. E’un mondo in crisi quello del signor G, ma non ci sono facili scorciatoie a disposizione per inventarne uno nuovo, e anche la diffidenza verso certe pseudo-liberazioni è già tutta presente. E il dissesto, la crisi, la contraddizione non danno mai luogo a una scrittura introversa, cifrata, autoreferenziale, caratteristica questa che apparterrà sempre al suo genio. Gaber vuole comunicare con tutti e intende ripagare la gente che lo ha scelto con una serata di emozioni coinvolgenti, contagianti, divertenti, a volte fatte di autentica poesia.
E il pubblico? A differenza del rapporto odierno fra palcoscenico e piccolo schermo (il primo ormai genuflesso ai peggiori difetti del secondo), le due dimensioni sono ancora estranee. Anche se è fresco di successi in tv, il “nuovo” Gaber il pubblico teatrale se lo conquista sera dopo sera, grazie al passa parola fra la gente e all’apertura di credito che la critica, pure se ancora indecisa se catalogarlo fra i canzonettari o i teatranti, gli concede fin dall’inizio. Ci vogliono due caparbie stagioni di teatri semivuoti (1970/1971 con Il signor G e 1971/1972 con Storie vecchie e nuove del signor G) per prendere il volo. La novità è che Gaber ha trovato la sua casa e la sua dimensione definitiva: è nato il teatro-canzone. Nella scrittura lo aiutano, all’inizio, Umberto Simonetta e Giuseppe Tarozzi, Herbert Pagani e, nell’ombra, un pittore viareggino incontrato a Milano, Sandro Luporini.
Comincia a questo punto una corsa dentro lo spirito dominante del decennio, decennio chiave di cambiamenti e rivolgimenti, accolto da Gaber e Luporini con un atteggiamento che va dall’entusiasta adesione agli incalzanti interrogativi e infine alla più cocente delusione. La parola chiave è impegno, tanto che il nuovo spettacolo della stagione 1972/1973 si chiama Dialogo fra un impegnato e un non so. A scriverlo, con l’apporto ancora nascosto di Sandro Luporini, è un Gaber trentenne che sta dalla parte del nuovo che avanza, che si identifica con una generazione che crede nel cambiamento, nella “rivoluzione”. Ma ci discute già, intuendo, come nel monologo che apre lo spettacolo, che “è cambiarsi davvero, è cambiarsi di dentro che è un’altra cosa!”. Nei dialoghi Gaber fa la parte del non so, sottoponendo le certezze del militante, l’impegnato, a una severissima disanima, fino alla vera e propria provocazione de Al bar Casablanca. E’ il nodo esistenziale, personale quello che gli sta a cuore. Da lì, dalla spietata analisi delle contraddizioni, nasce un evergreen come Lo shampoo ma anche quella che diverrà quasi la “sigla” di Gaber nel decennio: La libertà, di cui quasi tutti ricordano il ritornello (“la libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione”) e pochi la ridda di interrogativi che lo precede, su quello che la libertà “non” è. In tutta Italia, a ritmo crescente, i teatri vanno al tutto esaurito. In tanti corrono almeno una volta all’anno da Gaber per sentire “cosa ha di nuovo da dirci”, per due ore di godibilissima autocoscienza, per discutere con lui in camerino e poi continuare per strada, in macchina, in tram. Nasce la magica sintonia fra una certa “razza” – che in quel momento sembra la più intelligente e creativa del Paese - e un artista che cercava proprio questo: un contatto fra il suo lavoro e la realtà, un “noi” finalmente riconoscibile fra palcoscenico e platea. La canzone stessa, in questo contesto, cambia quasi di natura. Ogni volta i pezzi sono in gran parte nuovi, scritti da Gaber e Luporini durante la pausa estiva, e si giocano tutto al primo impatto col pubblico, al di fuori di ogni tradizionale meccanismo promozionale. Niente radio o tv: la canzone “funziona”, se funziona, al primo ascolto in teatro, e si badi che non si tratta più di ritornelli spensierati o sentimentali: è materia calda, sferzante anche nell’ironia, spesso frutto di letture importanti: da Laing e Cooper a Baudrillard, da Marx e la scuola di Francoforte a L’unico di Max Stirner, da Céline ed Alain Robbe-Grillet a Borges (è di quegli anni anche la simpatia di Gaber per un’irrequieta e fantasiosa rivista della cosiddetta “controcultura”: Re Nudo).
Eppure la cosa cresce, va avanti, ed ecco nella stagione ‘73/’74 Far finta di essere sani, dove nemmeno l’orchestra serve più. Gaber è tutto solo di fronte alla “sua” gente, i dischi fanno ormai solo da base per il suo canto o da promemoria a fine spettacolo. E accanto al teatro ci sono gli altri luoghi: le scuole, le fabbriche, i tendoni, persino i teatri parrocchiali; ovunque si possa comunicare. Il Piccolo Teatro è ormai solo un biglietto da visita, un patrocinio in locandina. Gaber è diventato “ditta”, come si dice a teatro: una pattuglia di fedelissimi lo segue ogni sera e un’altra sta dietro alle richieste che piovono da tutta Italia. La televisione è ormai dietro le spalle, la discografia un gioco d’altri tempi (il contratto con la Carosello servirà sostanzialmente a produrre dischi “di servizio”, venduti soprattutto in teatro). E sarà così per sei esplosive stagioni fino al ‘78/’79, in un autentico crescendo. Far finta di essere sani è una sorta di viaggio profondo nell’io diviso, contraddittorio, insincero. Ne parlano la canzone che dà il titolo allo spettacolo ma anche Cerco un gesto naturale e la godibilissima Quello che perde i pezzi. Le nuove scoperte, la politica, l’amore “liberato”, la cultura “alternativa”, non risolvono. Il bilancio è già tragicomico (La nave) ma la speranza del cambiamento è una strada ancora aperta. A certe condizioni, però. Quelle cantate in Un’idea (“se potessi mangiare un’idea avrei fatto la mia rivoluzione”) e in Chiedo scusa se parlo di Maria, dove la bruciante incertezza dell’epoca fra “personale” e “politico” ha questa risposta: “Se sapessi parlare di Maria, se sapessi davvero capire la sua esistenza, avrei capito esattamente la realtà…Maria la libertà, Maria la rivoluzione, Maria il Vietnam, la Cambogia, Maria la realtà”. Il rapporto fra l’io e la realtà resta la grande questione sul tappeto, troppo semplificata, sembrano dire Gaber e Luporini, dal facile sloganismo di quegli anni. Così in Anche per oggi non si vola, stagione ‘74/’75, i temi affrontati crescono per complessità e ambizione. La contraddizione, la spaccatura, sono affrontate guardando alla parola (La ragnatela, La bugia) ma soprattutto al corpo, alla sua ingombrante fisicità, alla sua identità sessuale in crisi (Il corpo stupido), al suo rapportarsi con gli altri privo di verità (Le mani). La fragilità di un egualitarismo indiscriminato è già indicata in un monologo come Angeleri Giuseppe - che sembra anticipare di anni l’esasperazione di un film come Prova d’orchestra di Federico Fellini -, mentre si fa strada il desiderio di altre liberazioni (La leggerezza, Buttare lì qualcosa) e soprattutto la coscienza piena dell’irriducibilità della realtà, qualsiasi ideologia tenti di ingabbiarla (La realtà è un uccello). Insomma: “anche per oggi non si vola” ma non si può che andare avanti, restare in movimento: il vecchio mondo resta comunque improponibile (C’è solo la strada). Strada che sarà percorsa con lo stesso spettacolo per due stagioni finché nel ‘76/’77 Gaber e Luporini si ributteranno nella mischia con materiale nuovo. Dentro c’è l’evidente influenza del Pasolini “corsaro” – morto da pochi mesi - e la delusione per certe scorciatoie giovanili, specie dopo il balzo elettorale in avanti della sinistra nella primavera del ’76. Mentre la “razza” cui appartengono crede di aver raggiunto i primi risultati politici, in Gaber e Luporini sembrano crescere la distanza e l’amarezza (I reduci), il desiderio dell’oltre (Il delirio), l’insoddisfazione per un io che continua ad aver bisogno di maschere (Il comportamento), la difficoltà dei riferimenti ideologici (Il sogno di Gesù, Il sogno di Marx). Fino alla drammatica parabola de L’uomo muore, che rimanda all’atmosfera del Pasolini più disilluso, quello di Salò. E se Quando lo vedi anche sembra anticipare il “j’accuse” che fra poco Gaber e Luporini faranno alla propria generazione, c’è sempre in serbo il balsamo dell’ironia. Ironia che produce due evergreen assoluti: Le elezioni e Si può. La svolta successiva, Polli d’allevamento, farà molto discutere e lascerà un segno definitivo sull’avventura del teatro-canzone. La stagione ‘78/’79 ha alle spalle l’Italia del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro, un’intera fetta della “razza” persa dietro al mito del terrorismo, il consociativismo in parlamento e le divisioni che crescono nel Paese. Gaber e Luporini tornano in teatro con coraggio e disposti al confronto duro, provocatorio, doloroso. Se in Timide variazioni e Chissà se nel socialismo continuano ad analizzare le illusioni dell’io, L’esperienza è già un bilancio in rosso di tutto un decennio, che sfocia nel gusto imprevisto per le suggestioni animalesche della violenza (La pistola). Ma si apre un nuovo, provocatorio capitolo: il confronto serrato col passato, con la tradizione. Ne I padri miei e I padri tuoi la “razza” è già messa in discussione con lucida spietatezza: forse erano meglio i padri, i padri reazionari, borghesi, autoritari ma ancora integri, interi. “Sono proprio deficenti gli uomini, ormai sono proprio devastati”, recita La festa, ma non è che un assaggio per il triplice colpo di Polli d’allevamento, Guardatemi bene e Quando è moda è moda. La prima è l’invettiva dell’amore deluso e tradito, ormai Gaber ha i toni pedagogici delle Lezioni luterane di Pasolini, contrappone l’io al voi: “Questa vostra vita sbatacchiata che sembra una coda di lucertola tagliata. Per riflesso involontario vi agitate, continuate ad urlare, finché non vi scoppia il cuore, il cuore, il cuore…”. La seconda ha il dolore aspro di un padre che vede negli ultimi figli, quelli del movimento del ’77, dei “mostri” di cui si sente in qualche modo responsabile: “Guardatemi bene, non credo più a niente, non voglio più lavorare, come un deficiente…sono un vostro figlio, una vostra creazione, un vostro prodotto: avete visto come sono ridotto!”. La terza è il commiato definitivo, il divorzio da una generazione, da una “razza” che ha sperperato e reso consumo ogni sogno di diversità. I toni sono senza precedenti, il sarcasmo stride come carta vetrata, come se fosse l’ultimo appello contro il disfacimento di un sogno: “Io per me, se c’avessi la forza e l’arroganza, direi che sono diverso e quasi certamente solo, direi che non riesco a sopportare le vecchie assurde istituzioni e le vostre manie creative, le vostre innovazioni…”. Fino alla chiusa a muso duro che anticipa la reazione del pubblico: “Di quelli che mi diranno che sono un qualunquista non me ne frega niente, non sono più compagno, né femministaiolo militante…sono diverso perché quando è merda è merda, non ha importanza la specificazione”. Come reagisce il pubblico? In teatro è il finimondo, arrivano fischi e “booh” di dissenso, l’impatto è durissimo. Su Gaber e Luporini fioccano le accuse di pessimismo, disfattismo, qualunquismo: qualcuno si sente apertamente tradito. La stagione è un vero calvario di scontri e discussioni ogni sera, Gaber e Luporini avranno bisogno di una lunga pausa di ripensamento. E nel furore delle discussioni pochi si accorgono delle profonde innovazioni musicali dell’ultimo Gaber, che ha scelto per le sue basi musicali un nuovo talento della scena musicale italiana: Franco Battiato.
Comincia a questo punto una corsa dentro lo spirito dominante del decennio, decennio chiave di cambiamenti e rivolgimenti, accolto da Gaber e Luporini con un atteggiamento che va dall’entusiasta adesione agli incalzanti interrogativi e infine alla più cocente delusione. La parola chiave è impegno, tanto che il nuovo spettacolo della stagione 1972/1973 si chiama Dialogo fra un impegnato e un non so. A scriverlo, con l’apporto ancora nascosto di Sandro Luporini, è un Gaber trentenne che sta dalla parte del nuovo che avanza, che si identifica con una generazione che crede nel cambiamento, nella “rivoluzione”. Ma ci discute già, intuendo, come nel monologo che apre lo spettacolo, che “è cambiarsi davvero, è cambiarsi di dentro che è un’altra cosa!”. Nei dialoghi Gaber fa la parte del non so, sottoponendo le certezze del militante, l’impegnato, a una severissima disanima, fino alla vera e propria provocazione de Al bar Casablanca. E’ il nodo esistenziale, personale quello che gli sta a cuore. Da lì, dalla spietata analisi delle contraddizioni, nasce un evergreen come Lo shampoo ma anche quella che diverrà quasi la “sigla” di Gaber nel decennio: La libertà, di cui quasi tutti ricordano il ritornello (“la libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione”) e pochi la ridda di interrogativi che lo precede, su quello che la libertà “non” è. In tutta Italia, a ritmo crescente, i teatri vanno al tutto esaurito. In tanti corrono almeno una volta all’anno da Gaber per sentire “cosa ha di nuovo da dirci”, per due ore di godibilissima autocoscienza, per discutere con lui in camerino e poi continuare per strada, in macchina, in tram. Nasce la magica sintonia fra una certa “razza” – che in quel momento sembra la più intelligente e creativa del Paese - e un artista che cercava proprio questo: un contatto fra il suo lavoro e la realtà, un “noi” finalmente riconoscibile fra palcoscenico e platea. La canzone stessa, in questo contesto, cambia quasi di natura. Ogni volta i pezzi sono in gran parte nuovi, scritti da Gaber e Luporini durante la pausa estiva, e si giocano tutto al primo impatto col pubblico, al di fuori di ogni tradizionale meccanismo promozionale. Niente radio o tv: la canzone “funziona”, se funziona, al primo ascolto in teatro, e si badi che non si tratta più di ritornelli spensierati o sentimentali: è materia calda, sferzante anche nell’ironia, spesso frutto di letture importanti: da Laing e Cooper a Baudrillard, da Marx e la scuola di Francoforte a L’unico di Max Stirner, da Céline ed Alain Robbe-Grillet a Borges (è di quegli anni anche la simpatia di Gaber per un’irrequieta e fantasiosa rivista della cosiddetta “controcultura”: Re Nudo).
Eppure la cosa cresce, va avanti, ed ecco nella stagione ‘73/’74 Far finta di essere sani, dove nemmeno l’orchestra serve più. Gaber è tutto solo di fronte alla “sua” gente, i dischi fanno ormai solo da base per il suo canto o da promemoria a fine spettacolo. E accanto al teatro ci sono gli altri luoghi: le scuole, le fabbriche, i tendoni, persino i teatri parrocchiali; ovunque si possa comunicare. Il Piccolo Teatro è ormai solo un biglietto da visita, un patrocinio in locandina. Gaber è diventato “ditta”, come si dice a teatro: una pattuglia di fedelissimi lo segue ogni sera e un’altra sta dietro alle richieste che piovono da tutta Italia. La televisione è ormai dietro le spalle, la discografia un gioco d’altri tempi (il contratto con la Carosello servirà sostanzialmente a produrre dischi “di servizio”, venduti soprattutto in teatro). E sarà così per sei esplosive stagioni fino al ‘78/’79, in un autentico crescendo. Far finta di essere sani è una sorta di viaggio profondo nell’io diviso, contraddittorio, insincero. Ne parlano la canzone che dà il titolo allo spettacolo ma anche Cerco un gesto naturale e la godibilissima Quello che perde i pezzi. Le nuove scoperte, la politica, l’amore “liberato”, la cultura “alternativa”, non risolvono. Il bilancio è già tragicomico (La nave) ma la speranza del cambiamento è una strada ancora aperta. A certe condizioni, però. Quelle cantate in Un’idea (“se potessi mangiare un’idea avrei fatto la mia rivoluzione”) e in Chiedo scusa se parlo di Maria, dove la bruciante incertezza dell’epoca fra “personale” e “politico” ha questa risposta: “Se sapessi parlare di Maria, se sapessi davvero capire la sua esistenza, avrei capito esattamente la realtà…Maria la libertà, Maria la rivoluzione, Maria il Vietnam, la Cambogia, Maria la realtà”. Il rapporto fra l’io e la realtà resta la grande questione sul tappeto, troppo semplificata, sembrano dire Gaber e Luporini, dal facile sloganismo di quegli anni. Così in Anche per oggi non si vola, stagione ‘74/’75, i temi affrontati crescono per complessità e ambizione. La contraddizione, la spaccatura, sono affrontate guardando alla parola (La ragnatela, La bugia) ma soprattutto al corpo, alla sua ingombrante fisicità, alla sua identità sessuale in crisi (Il corpo stupido), al suo rapportarsi con gli altri privo di verità (Le mani). La fragilità di un egualitarismo indiscriminato è già indicata in un monologo come Angeleri Giuseppe - che sembra anticipare di anni l’esasperazione di un film come Prova d’orchestra di Federico Fellini -, mentre si fa strada il desiderio di altre liberazioni (La leggerezza, Buttare lì qualcosa) e soprattutto la coscienza piena dell’irriducibilità della realtà, qualsiasi ideologia tenti di ingabbiarla (La realtà è un uccello). Insomma: “anche per oggi non si vola” ma non si può che andare avanti, restare in movimento: il vecchio mondo resta comunque improponibile (C’è solo la strada). Strada che sarà percorsa con lo stesso spettacolo per due stagioni finché nel ‘76/’77 Gaber e Luporini si ributteranno nella mischia con materiale nuovo. Dentro c’è l’evidente influenza del Pasolini “corsaro” – morto da pochi mesi - e la delusione per certe scorciatoie giovanili, specie dopo il balzo elettorale in avanti della sinistra nella primavera del ’76. Mentre la “razza” cui appartengono crede di aver raggiunto i primi risultati politici, in Gaber e Luporini sembrano crescere la distanza e l’amarezza (I reduci), il desiderio dell’oltre (Il delirio), l’insoddisfazione per un io che continua ad aver bisogno di maschere (Il comportamento), la difficoltà dei riferimenti ideologici (Il sogno di Gesù, Il sogno di Marx). Fino alla drammatica parabola de L’uomo muore, che rimanda all’atmosfera del Pasolini più disilluso, quello di Salò. E se Quando lo vedi anche sembra anticipare il “j’accuse” che fra poco Gaber e Luporini faranno alla propria generazione, c’è sempre in serbo il balsamo dell’ironia. Ironia che produce due evergreen assoluti: Le elezioni e Si può. La svolta successiva, Polli d’allevamento, farà molto discutere e lascerà un segno definitivo sull’avventura del teatro-canzone. La stagione ‘78/’79 ha alle spalle l’Italia del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro, un’intera fetta della “razza” persa dietro al mito del terrorismo, il consociativismo in parlamento e le divisioni che crescono nel Paese. Gaber e Luporini tornano in teatro con coraggio e disposti al confronto duro, provocatorio, doloroso. Se in Timide variazioni e Chissà se nel socialismo continuano ad analizzare le illusioni dell’io, L’esperienza è già un bilancio in rosso di tutto un decennio, che sfocia nel gusto imprevisto per le suggestioni animalesche della violenza (La pistola). Ma si apre un nuovo, provocatorio capitolo: il confronto serrato col passato, con la tradizione. Ne I padri miei e I padri tuoi la “razza” è già messa in discussione con lucida spietatezza: forse erano meglio i padri, i padri reazionari, borghesi, autoritari ma ancora integri, interi. “Sono proprio deficenti gli uomini, ormai sono proprio devastati”, recita La festa, ma non è che un assaggio per il triplice colpo di Polli d’allevamento, Guardatemi bene e Quando è moda è moda. La prima è l’invettiva dell’amore deluso e tradito, ormai Gaber ha i toni pedagogici delle Lezioni luterane di Pasolini, contrappone l’io al voi: “Questa vostra vita sbatacchiata che sembra una coda di lucertola tagliata. Per riflesso involontario vi agitate, continuate ad urlare, finché non vi scoppia il cuore, il cuore, il cuore…”. La seconda ha il dolore aspro di un padre che vede negli ultimi figli, quelli del movimento del ’77, dei “mostri” di cui si sente in qualche modo responsabile: “Guardatemi bene, non credo più a niente, non voglio più lavorare, come un deficiente…sono un vostro figlio, una vostra creazione, un vostro prodotto: avete visto come sono ridotto!”. La terza è il commiato definitivo, il divorzio da una generazione, da una “razza” che ha sperperato e reso consumo ogni sogno di diversità. I toni sono senza precedenti, il sarcasmo stride come carta vetrata, come se fosse l’ultimo appello contro il disfacimento di un sogno: “Io per me, se c’avessi la forza e l’arroganza, direi che sono diverso e quasi certamente solo, direi che non riesco a sopportare le vecchie assurde istituzioni e le vostre manie creative, le vostre innovazioni…”. Fino alla chiusa a muso duro che anticipa la reazione del pubblico: “Di quelli che mi diranno che sono un qualunquista non me ne frega niente, non sono più compagno, né femministaiolo militante…sono diverso perché quando è merda è merda, non ha importanza la specificazione”. Come reagisce il pubblico? In teatro è il finimondo, arrivano fischi e “booh” di dissenso, l’impatto è durissimo. Su Gaber e Luporini fioccano le accuse di pessimismo, disfattismo, qualunquismo: qualcuno si sente apertamente tradito. La stagione è un vero calvario di scontri e discussioni ogni sera, Gaber e Luporini avranno bisogno di una lunga pausa di ripensamento. E nel furore delle discussioni pochi si accorgono delle profonde innovazioni musicali dell’ultimo Gaber, che ha scelto per le sue basi musicali un nuovo talento della scena musicale italiana: Franco Battiato.
La stagione successiva, ‘79/’80, si limita a un riassunto delle puntate precedenti: Due retrospettive, al Lirico di Milano, nasce su proposta della Rai, che a primavera le proporrà al telespettatore dell’epoca, quello di Dallas, solo a tarda notte. Cresce il bisogno di fermarsi, di capire quello che è accaduto. Se la delusione cresce (sono gli anni del cosiddetto “riflusso”, gli anni un po’ arroganti della “Milano da bere”), se alla violenza reattiva del pubblico ha fatto subito seguito un dilagante “tutti a casa”, Gaber e Luporini prendono coscienza di quello che sono diventati. C’è un capitale non intaccato di capacità di scrittura, di credibilità di fronte al pubblico, di maturità del Gaber quarantenne sul palcoscenico, che attende solo le occasioni giuste per andare avanti. Da solo? Senza più una “razza”, senza più un “noi”? Sì, solo. Ma i riconoscimenti anche collettivi non mancheranno, da parte di un pubblico individualista in cerca di qualcuno che lo interpreti o di nuove aggregazioni di tutt’altra provenienza rispetto al passato, la cui attenzione sorprenderà per primo il diretto interessato. Gaber ricomincia da un disco del 1980, Pressione bassa, che esplora diverse direzioni. C’è l’ennesimo bilancio bruciante del sogno appena trascorso (Non è più il momento), la pura e semplice contemplazione della positività della vita (L’illogica allegria), la prima avvisaglia di quello che sarà un lungo viaggio nell’universo femminile (Una donna) e uno dei capolavori assoluti e definitivi del teatro-canzone di Gaber e Luporini: Il dilemma, canzone coniugale che dopo vent’anni non ha ancora esaurito la sua forza e la sua poesia: troppo avanti per quegli anni, ancora da scoprire per quelli che verranno. Con Anni affollati la “ditta” riprende a frequentare i teatri per una stagione, quella dell’‘81/’82, di immutato successo. Arrivano altri assaggi in nuove direzioni: dalla fragile condizione della malattia (Gildo), al corpo a corpo quasi “testoriano” con la dimensione religiosa (1981). E’ la paradossale, laicissima reazione a un mondo che dell’assoluta mancanza di ogni morale mena vanto: “Sono disposti ad accettare qualsiasi emozioncina, qualsiasi opinione, qualsiasi tendenza pur di tenere lontano dall’opera d’arte la coscienza e l’aspirazione alla verità una”, spiegherà Luporini a Michele Serra. Ma non si può ignorare che il contraccolpo verrà dall’ultima provocazione-invettiva di Gaber e Luporini: Io se fossi Dio, scritta nell’estate dell’80, che risulterà talmente estranea all’atmosfera dominante da dover ricorrere a un discografico di “disco dance”, per uscire su vinile. E’ il “redde rationem” contro tutto e tutti, il potere e l’antipotere, la sinistra e la destra, gli amici e i nemici. E’ una danza macabra, un inferno dantesco in cui nessuno è risparmiato, perfino – cosa che scandalizzerà molti – le responsabilità politiche di Aldo Moro. Ma forse è il colpo di coda, lo sfogo necessario, catartico, di un artista collettivo che reagisce così al consociativismo mentale dominante, all’”embrassons nous” squisitamente di potere che sta preparando nuovi disfacimenti al Paese. Serve una pausa, un intervallo: “No, non muovetevi, c’è un’aria stranamente tesa, un gran bisogno di silenzio, siamo come in attesa” (L’attesa).
La prima svolta è forse sperimentale, arrischiata: l’incontro, che non avrà seguito, con una grande attrice come Mariangela Melato, per la breve stagione ‘82/’83 de Il caso di Alessandro e di Maria. Il testo di Gaber e Luporini è un primo viaggio in prosa dentro l’universo maschile e femminile, ma l’esito finale, nonostante il successo di pubblico e la prova del Gaber coprotagonista, non soddisfa del tutto i due autori. Tant’è che dopo una stagione di pausa è il “Teatro canzone” a tornare a farla da padrone, con l’orchestra che dopo un decennio ritorna in palcoscenico. Le due stagioni ‘84/’85 e ‘85/86 di Io se fossi Gaber, e il disco che le accompagna, Gaber, aggiornano il sound dell’artista, anche in teatro. Si aggiunge al repertorio una struggente canzone dai toni metafisici (Io e le cose) e un’implacabile analisi cantata del presente come Il sociale, dove già Gaber e Luporini intuiscono molte delle malattie che verranno, dal solidarismo indiscriminato al conformismo della cultura. Cultura che è bersaglio di tagliente sarcasmo nel travolgente monologo Cosa non mi sono perso, come la teledipendenza dilagante lo è ne L’audience e Il deserto. Ma il bilancio finale di quest’Italia imbelle, in Benvenuto il luogo dove, è insolitamente tenero. Sarà, per qualche anno, l’ultimo sguardo di Gaber e Luporini sul mondo. Altre urgenze attirano i nostri autori. Anzi una sola: la ricostruzione di una possibile integrità dell’io a partire dalla sua esigenza più elementare: il sentimento. E’ una vecchia canzone degli anni Trenta, Parlami d’amore Mariù, a far da titolo al primo capitolo di quello che Gaber e Luporini definiranno il loro “Teatro d’evocazione”. “Per concezione, o semplicemente per comodità (un solo attore in scena) – spiegano -, il nostro è un teatro scarno che privilegia appunto l’attore e la parola. I temi si differenziano un po’ da quelli del teatro-canzone, dove vengono affrontati spesso problemi più specificatamente sociali. Scompare infatti completamente tutto ciò che appartiene al mondo della politica (dalla satira all’invettiva) per dar posto a un’analisi sulla nostra esistenza”. L’obbiettivo è quello di suscitare una sorta di “pulizia del sentire, perché proprio da lì si può trovare il coraggio di ridare un’occhiata al mondo”. La presenza delle canzoni, nelle due stagioni ‘86/’87 e ‘87/’88 di Parlami d’amore Mariù, si assottiglia considerevolmente, e tuttavia Gaber e Luporini colgono con partecipazione la nuova condizione dei single in I soli, percorrono lucidamente l’intera dinamica esistenziale ne La gente è di più, affrontano la crisi della persona in un blues scatenato come Isteria amica mia ed espongono ne L’uomo che sto seguendo quasi un nuovo manifesto. Nel passo successivo, il lungo monologo in due atti Il grigio, lotta senza quartiere di un uomo contro una presenza irriducibile, un inafferrabile e misterioso topo (dominerà le tre stagioni seguenti), le canzoni non ci saranno più. Nel finale scorgiamo l’affermarsi di un punto di vista che Gaber e Luporini confermeranno anche negli anni a venire, una sorta di “pietas” che è un po’ il segno della raggiunta maturità: “Avete mai visto le spalle di un uomo che cammina davanti voi? Io le ho viste. Sono le spalle comuni di un uomo qualsiasi. Ma si prova una sensazione simile alla tenerezza. C'è tutta la normalità umana. La fatica quotidiana del capofamiglia che va al lavoro. I piaceri di cui è fatta la sua precaria esistenza. Sì, certo... tutto dentro la naturalezza di quelle spalle vestite. Quello che io ora provo per quell'uomo è una comprensione diretta, senza impegno, senza ideologie sociali. Attraverso quest'uomo li posso vedere tutti. Nessuno sa quello che fa, nessuno sa quello che vuole, nessuno sa quello che sa. Intelligenti, stupidi... che differenza c'è? Vecchi giovani... certo, tutti della stessa età. Uomini donne... Che vuoi che conti?... Tentativi di persone che forse... esistono. Sì, quell'uomo è tutto. Bisognerebbe essere capaci di trovare... l'indulgenza e l'amore che dovrebbe avere un Dio che guarda”. Parlami d’amore Mariù, Il grigio, e la fugace ma intensa apparizione de Il Dio bambino, storia di un parto imprevisto che travolge con la sua carnalità tutto l’impaccio e il narcisismo della condizione maschile, valgono a Gaber il definitivo riconoscimento del mondo teatrale. L’autentico tour de force fisico che rappresentano queste tre prove attorali, la tensione drammaturgica della scrittura, l’originalità dei temi affrontati, saranno affiancati dall’anomala avventura di una messa in scena di Aspettando Godot di Beckett (accanto a Gaber il suo vecchio sodale Enzo Jannacci), dal lavoro di autore per gli spettacoli di Ombretta Colli e quello di curatore per molti giovani attori, da Paolo Rossi ad Arturo Brachetti e Giampiero Alloisio. Un’intensità di impegni teatrali che culminerà con la direzione artistica, nel 1989, del Teatro Goldoni di Venezia. Ma già nella stagione ‘91/’92 il vecchio teatro-canzone reclama il suo spazio.
La formula? Quella di sempre: monologhi e canzoni. Solo che Gaber e Luporini si rendono conto della quantità e qualità del repertorio più che ventennale che hanno alle spalle e del fatto che sono in tanti, nel pubblico che continua a seguirli, a non conoscerlo per pure ragioni anagrafiche. Dunque di qui in avanti novità e repertorio conviveranno, scegliendo dal passato soprattutto quello che oggi suona quasi profetico. In più c’è la forza accresciuta del Gaber attore, il gusto di avere un gruppo musicale ormai fisso, persino il godibilissimo capitolo dei bis - un ripasso all’impronta, voce e chitarra, delle canzoni più popolari del Gaber anni 60 e 70 – che soddisfa le emozioni più semplici del pubblico (un vecchio ritornello in coro, lo sguardo fra l’ilare e il commosso per chi ti siede accanto). Ma “c’è roba”, come direbbe Gaber, materiale nuovo che nasce dall’immutata voglia di dire la propria sullo stato del mondo. Un parere personale, certo, senza alcuna pretesa di identificazione collettiva. Eppure quel pubblico che entra in teatro in ordine sparso se ne va via spesso all’unisono, di nuovo unito per imprevedibili vie. Ogni stagione ha i suoi colpi di genio. La stagione ‘91/’92 è quella dell’impetuoso monologo Qualcuno era comunista, generosa prova attorale e insieme bilancio dolceamaro di un sogno a cui tanti avevano creduto. Sono commozioni ed applausi ogni sera, timide riprese di una voglia di discutere che dentro la gente comincia a rinascere. Il paesaggio intorno è quello dell’Italia ferita da Tangentopoli, e gli anni seguiti alla caduta del muro di Berlino non si riveleranno che l’inizio di un tragico domino che abbatterà partiti, istituzioni, carriere e vite personali. Ma la lezione degli anni Settanta non è passata invano, per Gaber e Luporini. Il loro sguardo alla realtà è ormai trasversale, senza facili risposte. Spunta dove meno te l’aspetti, scettico verso le insensate euforie dei mass media (C’è un’aria, Io come persona), sarcastico verso la telecrazia montante (La strana famiglia). E dalla stagione ‘94/’95 Gaber e Luporini ritrovano persino il gusto per titoli forti, provocanti, come quello dello spettacolo E pensare che c’era il pensiero. Lo apre un monologo sapido e raggelante sull’impotenza del sistema politico: La sedia da spostare; lo segue un’amara ballata/monologo: Mi fa male il mondo. Ma l’intuizione più originale è forse nella Canzone della non appartenenza, dove il bersaglio è il rischio di insincerità di tanto solidarismo corrente. Non è da meno la forza provocatoria di E pensare che c’era il pensiero, lo sguardo intenso sui sentimenti di Quando sarò capace d’amare e Un uomo e una donna, il sarcasmo pungente e travolgente della godibilissima Destra-Sinistra, allegro manifesto di un Gaber che davvero si pone al di là di ogni possibile manicheismo. Gaber ‘96/’97 aggiunge al carnet l’invettiva contro la popolarità a ogni costo de Il successo - solo una critica prigioniera di antichi vizi arriverà a far condizionare il proprio giudizio sul lavoro di Gaber dall’attività politica di sua moglie Ombretta Colli - ma soprattutto lancia quella Canzone dell’appartenenza che dopo quasi trent’anni farà la pace con quel bisogno antico, ma sempre vivo, che mosse Gaber e Luporini a cercare una “razza” cui appartenere. Desiderio fattosi ancora più attuale di fronte al progressivo sfarinarsi delle identità (Il conformista) e dell’idea stessa di Occidente (I barbari, Una nuova coscienza). Ancora un titolo pungente per lo spettacolo delle stagioni ‘97/’98 e ‘98/’99: Un’idiozia conquistata a fatica, e un’insistenza implacabile nel richiamare i propri interlocutori a nuove consapevolezze. Attraverso la difesa del pensiero (Il luogo del pensiero) o l’anticonformismo urticante di una delle più riuscite canzoni dell’intera carriera di Gaber, Il potere dei più buoni, si rinnova la capacità dei nostri autori di indicare una strada e provocare “dibattito”, come si diceva una volta. Ma si fa strada anche il bisogno di fare il bilancio di quello che si è vissuto (Che bella gente) e anche un po’ di ironia su certi rimbambimenti familiari (La stanza del bambino). Il calendario del teatro-canzone, in attesa di nuove partenze, si chiude con la stagione ‘99/’2000. E il nuovo millennio di Gaber e Luporini ci riporta a un’antica questione. Finita ogni illusione, evaporato il mito di ogni possibile alternativa, ecco i nostri autori riproporci una realtà che resta dura e implacabile, invasiva e insinuante: Il mercato. Le sfide, dice Gaber nella canzone, sono quelle di sempre, anche se il paesaggio è cambiato e le generazioni ormai diverse.
Quel che è certo è che la sua, canta nel 2001 un Gaber insolitamente perentorio, “ha perso”. Ha perso, sembra dirci ne La razza in estinzione, una “razza” che ha visto trasformarsi i sogni in parodie, le parole d’ordine in luoghi comuni, la speranza di cambiamento in demagogia. E ce lo dice con un mezzo in un certo senso nuovo, che aveva abbandonato da molti anni: il disco. In un periodo di forzato riposo e di ripensamento, si fa strada l’idea di accettare la proposta di una multinazionale del disco, la Warner, di riportare Giorgio Gaber in sala d’incisione. L’obbiettivo è quello di fare un disco vero, senza scopi immediati di supporto ad un nuovo spettacolo, un disco con tanto di arrangiamenti e produzione, un disco che cerchi un sound all’altezza dei tempi e provi a parlare a un pubblico nuovo, non necessariamente al corrente del percorso teatrale di Gaber. Allo scopo sono ingaggiati Beppe Quirici, musicista e produttore dell’entourage di Ivano Fossati, e la “maga” dei suoni Marti Jane Robertson, al lavoro col consueto gruppo di strumentisti che seguono Gaber in teatro. L’idea è di fornire un “ripasso” delle canzoni più pungenti: da Il potere dei più buoni a Canzone dell’appartenenza, da Si può a Quando sarò capace di amare, da Destra–Sinistra a Qualcuno era comunista, unica testimonianza live della raccolta. Ma naturalmente insieme a quello che di nuovo Gaber e Luporini hanno scritto sul presente, qualcosa che ancora una volta provoca il dibattito. La razza in estinzione e Verso il nuovo millennio, amarissimo bilancio del presente la prima ed elogio della speranza nonostante tutto la seconda, arrivano come una staffilata, sulla stanca e confusa opinione pubblica italiana, su quelli che un tempo appartenevano alla stessa “razza” come sui nuovi arrivati. Fanno discutere, fanno scrivere pagine e pagine dai giornali, fanno riscoprire Gaber a un pubblico che, ormai attaccato solo al piccolo schermo, ne aveva un po’ perso le tracce. Il disco, cui Gaber si era accostato con un certo scetticismo, ha un inaspettato riscontro, scala le classifiche di vendita, raggiunge risultati (120.000 copie) che vanno molto al di là di ogni più rosea previsione. E’ come se Gaber a sessant’anni tornasse ai risultati raggiunti quando ne aveva poco più di venti. Ma c’è un altro aspetto. Quello che era nato come una sorta di omaggio a sorpresa da parte dei suoi più fedeli collaboratori - chiedere ad alcune personalità insigni una breve testimonianza sui quarant’anni di carriera del nostro per il libretto del disco – si rivela un inaspettatamente universale riconoscimento al suo lavoro. Da Mina a Francesco Alberoni, da Antonio Ricci a Sergio Castellitto, da Sergio Bertinotti al fondatore di Comunione e Liberazione don Luigi Giussani, tutti concordano nel riconoscere, pur da sponde e radici diverse, quanto è prezioso l’apporto di Giorgio Gaber alla nostra cultura. In fondo è la conclusione più giusta - provvisoria s’intende, visto che con Luporini ci sta già preparando nuove sorprese – del suo itinerario. Riepiloghiamo: Gaber è l’ultimo artista, l’ultimo intellettuale, ad aver conosciuto da vicino la cultura di massa, ad averla frequentata e sfidata sul suo stesso terreno, dalla canzone alla televisione. Poi ha scommesso sulla possibilità di inventarsene un’altra, di cercare un modo più autentico e vero di comunicare, ritrovandosi con nuovi strumenti sull’antica strada del teatro. Oggi ha la credibilità necessaria per permettersi tutto, dal monologo in prosa all’ultimo show di Celentano in tivù, dall’intervista alla rivista di cultura fino alla scalata (involontaria) della hit parade. Il punto è se l’opinione pubblica italiana sarà in grado, in questo nuovo secolo che avanza, di accettare le prossime sfide di un intellettuale vero come Giorgio Gaber. Una risposta non ce l’abbiamo, ma sappiamo che è una bella fortuna, per un Paese come il nostro, poter contare su una voce così libera e vera. E che ci riporta alla realtà.